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Riassunto capitolo trentaduesimo

I Promessi Sposi

 

 

 

Proseguendo la descrizione delle vicende storiche, l’autore ne fa un quadro sinistro e desolante. Alla peste che inclemente falcia vite umane e semina sofferenze infinite, si aggiunge la miseria generale, la mancanza di mezzi necessari, per porvi, quant’è possibile, rimedio.

Ad aver cura della popolazione, dovrebbe essere il governatore, ma costui, impegnato nel prolungato assedio di Casale, trasferisce « con lettere patenti, la sua autorità al Ferrer».

A questo punto il Manzoni non manca di far presente, con sottile e pungente ironia, che i mezzi finanziari per alleviare i malanni della popolazione non si trovano, perché servono per una guerra la quale, « dopo aver portato via, senza parlar dei soldati, un milion di persone, a dir poco, per mezzo del contagio, tra la Lombardia, il Veneziano, il Piemonte, la Toscana, e una parte della Romagna; dopo aver desolati, come s’è visto di sopra, i luoghi per cui passò, e figuratevi quelli dove fu fatta; dopo la presa e il sacco atroce di Mantova; finì con riconoscerne tutti il nuovo duca, per escludere il quale la guerra era stata intrapresa».

Poiché il male imperversa sulla popolazione inerme, si fa richiesta al cardinale di una processione solenne per le vie della città, portando il corpo di San Carlo. La richiesta non viene accolta dal prelato, perché teme che la fiducia si volga in scandalo, e perché il radunarsi di tanta gente possa accrescere il contagio.

Per il perdurare e l’aggravarsi del morbo, gli uomini sono amareggiati, ma i mali non si attribuiscono a questa o a quella causa, per la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi, ma ad « una perversità umana»,a degli untori, a persone che cospargono « un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo». E con questa errata convinzione, ed esasperazione nell’animo, si va alla ricerca di presunti untori. Si bastona perciò un vecchio ottuagenario, reo, secondo l’allucinazione dei presenti, di aver unto le panche della chiesa di sant’Antonio; si malmenano tre francesi, perché sospetti untori del duomo, poiché hanno toccato una parete, per accertarsi se fosse di marmo. Né tali episodi avvengono solo in città; anche nelle campagne si ripetono fatti simili. Uno sconosciuto che si adagi a guardare in qua e in là, o che si butti giù per riposarsi, è giudicato un untore; e allora è tempestato di pietre, ed è menato, « a furia di popolo in prigione».

Date le circostanze, (aumento delle mortalità, disagi crescenti, peste in estensione) i decurioni ed il popolo rinnovano la richiesta della processione al cardinale; questi resiste qualche tempo ancora, ma poi « il senno d’un uomo contro la forza dei tempi, e l’insistenza di molti», cede, e fa la processione.

Il giorno dopo, mentre regna «una fanatica sicurezza» che la processione debba aver stroncato la peste, le morti aumentano « con un salto così subitaneo», che si pensa ne sia stata causa la processione stessa. Ma la credenza popolare, diventa ormai una psicosi, attribuisce l’effetto, « non all’infinita moltiplicazione dei contatti fortuiti, » ma alla facilità con cui gli untori abbiano potuto eseguire « il loro empio disegno». E siccome, anche al più attento osservatore, non era stato possibile « scorgere untumi, macchie di nessuna sorte sui muri, né altrove, » si dice che siano state sparse « delle polveri venefiche e malefiche » lungo la strada e i crocicchi e che queste si siano attaccate ai piedi scalzi di molti che avevano seguito la processione, o ai vestiti. « Era invece il povero senno umano » — afferma lo scrittore Agostino Lampugnani — « che cozzava coi fantasmi creati da sé».

Il numero dei morti aumenta in modo impressionante, raggiunge al giorno punte di tremilacinquecento. La città di Milano, che prima contava, da duecento a duecentocinquantamila abitanti, ora è ridotta ad un quinto circa.

Ogni giorno bisogna provvedere ad aumentare i « serventi pubblici»; specialmente monatti e apparitori: i monatti sono addetti a « levar dalle case, dalle strade, dal lazzaretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse e sotterrarli». Gli apparitori, invece, precedono i carri e avvertono la popolazione, mediante il suono di un campanello, che si ritiri al loro passaggio.

Le necessità al lazzaretto sono così gravi e imponenti che il personale laico scarseggia; mancano persino i medici ed è difficile reperirli. Ma in questo tragico frangente spicca l’opera e l’assistenza degli ecclesiastici. Dove c’è dolore e sofferenza ci sono loro; e tra questi, pronta a dare l’esempio e l’incitamento, spicca la figura del cardinale Federigo. Ai parroci, di cui la peste aveva fatto larga strage, scriveva: « siate disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un ‘anima a Cristo».

Ma se da una parte l’opera dei religiosi è come « una sublimazione di virtù, » dall’altra non manca un aumento di perversità da parte dei monatti, sicuri dell’impunità, a causa del caos e quindi del «rilasciamento d’ogni forza pubblica». Costoro sono arbitri di ogni cosa; nelle case entrano da padroni; minacciano di trascinare anche i sani al lazzaretto se non versano somme ingenti. Si dice persino che monatti e apparitori buttassero dai carri indumenti infetti, « per propagare e mantenere la pestilenza, divenuta per essi un’entrata, un regno, una festa».

Intanto la paura dell’unzione, radicata e ingrandita, diventa un’ossessione, sfiora la pazzia. Si dubita e si sospetta di essere untori, non solo dell’amico e del conoscente, ma anche di parenti intimi: marito e moglie, padre, madre, fratello; si temono persino la mensa e il letto nuziale.

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Capitolo II

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Capitolo III

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